La generatività sociale offre una prospettiva inedita nel leggere l’economia e la società, le loro relazioni e i loro sviluppi.
Insistendo sulla necessità di adottare uno sguardo più largo, integrato e prospettico sulla realtà, essa ci permette di recuperare la dimensione processuale e intertemporale, e ad assumere una visione non lineare, cioè complessa della vita.
In questo modo, la generatività ci mette in guardia: se vogliamo affrontare i nodi che bloccano il dinamismo e l’iniziativa dei diversi attori sociali, gli approcci settoriali e a breve termine vanno superati.
Si tratta di un passaggio particolarmente difficile per il nostro Paese.
In Italia, la vitalità sempre un po’ caotica dell’organizzazione socioeconomica – se ha certamente dei vantaggi – investe dei suoi aspetti più negativi anche le policies, macroazioni dall’intento largo e migliorativo, animate da una visione di lungo periodo e realizzate grazie al contributo sinergico di una pluralità di attori.
Ne è prova l’eccesso legislativo, normativo e amministrativo che finisce di fatto per restringere enormemente la visione e gli obiettivi delle policies, così come il campo di azione dei diversi attori, e perfino ad ingarbugliare ancora di più i nodi da sciogliere.
Lo attesta, però, anche l’impoverimento del discorso politico, che, sfruttando quella stessa frammentazione, si dedica più alla ricerca del consenso a breve termine che all’elaborazione di finalità significative e di largo respiro per il Paese, opzione che trova vasti terreni di coltura nella sfiducia e nell’atrofia diffusa dell’agire civico.
Di fatto, privo delle coordinate relazionali di intergenerazionalità e complessità e spesso di una meta più ampia e condivisa, l’insieme dei dispositivi messi in campo finisce per diventare – più che una rete che connette, coordina ed armonizza – una sorta di armatura che ingabbia il dinamismo della società italiana.
È un altro segnale che l’approccio lineare e a breve termine va definitivamente superato: la semplice sommatoria di interventi puntuali non garantisce affatto il risultato sperato, anzi rischia di generare esiti paradossali, quando non opposti. Come abbiamo visto parlando di disuguaglianza.
A livello di metodo, ciò di cui c’è urgente bisogno è un modo nuovo, integrato, di ideare, progettare, realizzare e valutare le policy.
Rispetto agli obiettivi, è necessario investire su processi che siano effettivamente trasformativi nel tempo, nel quadro di una visione di lungo periodo per il Paese.
Non si tratta perciò solo di risolvere problemi (logica del problem solving), quanto di lavorare per aumentare le capacità di problem setting. Anche recuperando anche il valore discorsivo delle policies che sono sempre anche un racconto che dice il come, ma anche il cosa.
In questo senso, le policy devono incarnarsi in luoghi e tempi, imparando l’ascolto e il coinvolgimento degli attori sociali. Integrando, autorizzando e valorizzando i dinamismi già esistenti ma anche lavorando in senso capacitante, per smantellare ostacoli e barriere.
I sistemi complessi funzionano così: riescono a registrare aggiustamenti significativi, quando vengono attivati processi di intelligenza collettiva capaci di elaborare risposte efficaci proprio in virtù dell’integrazione di una pluralità di attori e prospettive.
Lo sviluppo, infatti, è molto più della crescita.
La differenza tra questi due termini sta nel fatto che la crescita – per come è stata per lo più fraintesa negli ultimi decenni – tende a ridursi a semplice aumento quantitativo delle possibilità ad ogni costo. Cioè, a prescindere da ogni considerazione relativa alle sue premesse (che vanno di continuo ricostituite), alle sue modalità (si pensi allo sfruttamento delle persone e dell’ambiente) e alle sue esternalità (come l’inquinamento).
La crescita è veramente tale quando diventa sostenibile. Cioè, quando essa è il risultato di un processo evolutivo integrale, orientato al lungo periodo, centrato sul rafforzamento di libertà consapevoli dei legami sociali, ambientali e generazionali che le costituiscono.
Questo significa riconoscere la priorità dell’investimento sulla qualità delle persone e delle relazioni sociali, organizzative e istituzionali.
Per sbloccare l’Italia, per liberare le energie che pure affiorano di continuo, occorre superare l’idea riduttiva di crescita che si accontenta dello sfruttamento delle occasioni di breve periodo, incurante degli impatti prodotti e della profondità temporale di riferimento.
È solo nella logica dello sviluppo che è possibile introdurre una prospettiva differente. Una prospettiva che oggi diventa più urgente, poiché a cambiare sono le coordinate macro dei processi di globalizzazione.
Nel quadro di grande instabilità nel quale ci troviamo ad operare e nel momento in cui la questione della sostenibilità assume i caratteri dell’urgenza, proprio mentre l’ambiente tecnologico vira verso la digitalizzazione, non c’è alcuna possibilità di raggiungere gli obiettivi indicati nell’agenda 2030 senza superare il modo di pensare la crescita.
In un mondo in profonda transizione, non si tratta più semplicemente di cogliere le opportunità, quanto di aprirne di nuove. Il che significa che lo sviluppo integrale, nella logica sostenibile-contributiva – processo insieme individuale e collettivo, pubblico e privato, economico e sociale, culturale e tecnologico, imprenditivo e istituzionale – è condizione per la crescita nei prossimi anni.