in questo capitolo:
INTRODUZIONE
Come è una scuola ben fatta? Il sistema di istruzione e formazione italiano nella sfida della complessità
Trasformazioni sociali ed economiche sempre più rapide e complesse pongono oggi una grande sfida alle istituzioni preposte ad assolvere il compito di educare e formare i cittadini di domani. Il mandato della scuola è la promozione di ogni individuo, l’educazione alla convivenza in contesti socioculturali ad elevata complessità ed eterogeneità, la preparazione ad una partecipazione proattiva e competente al mercato del lavoro. ESPANDI
PRINCIPALI EVIDENZE
Gli studenti italiani faticano a tenere il passo con il livello di competenze degli altri Paesi europei
Complessivamente, gli studenti italiani hanno ottenuto nel 2018 performance di poco inferiori alla media dell’Unione Europea3 Ultimo anno per cui i dati sono disponibili. Per fornire una misura del livello di competenze degli studenti europei, sono stati presi in considerazione i risultati dei test PISA che ogni tre anni l’OCSE somministra a tutti gli studenti quindicenni degli Stati membri. Questi test misurano il livello di preparazione relativo a tre diverse aree disciplinari di competenze: matematico-numeriche, di lettura e scientifiche. . Per quanto riguarda le competenze matematiche e di lettura (figura 1 e figura 2) quasi uno studente su quattro non ha raggiunto un punteggio adeguato agli standard fissati dall’OCSE4 Rispettivamente il 23.8% e il 23.3%. Nonostante il distacco con la media UE sia contenuto (-1.4 p.p. e -1.6 p.p.), confrontando i risultati italiani con quelli dei Paesi best performer il divario si amplia notevolmente5 In Estonia, eccellenza assoluta in tutti e tre gli ambiti disciplinari considerati, circa uno studente su dieci non raggiunge competenze matematiche e di lettura adeguate, mentre la quota in Danimarca, Polonia e Finlandia si attesta intorno al 15% per entrambi gli ambiti disciplinari.. Risulta invece sensibilmente più elevata la percentuale di studenti italiani che ha ottenuto punteggi non adeguati nei test sulle competenze scientifiche (25.9%) (figura 3)6 In questo caso l’Italia si colloca all’interno dell’ultimo quartile tra i Paesi europei in cui si osservano i peggiori risultati. Il divario rispetto alla media UE è invece di 4.3 punti percentuali..
Formazione e riduzione del gap di genere: le studentesse italiane colmano il divario nelle competenze matematiche, anche se si conferma il ritardo dei maschi nella comprensione della lingua italiana
Osservando le serie storiche si può notare come la quota di studenti con basse competenze matematiche si sia progressivamente ridotta fino a colmare il divario con la media dell’Unione Europea (figura 4)7 Nel 2006 era di circa 8 punti percentuali. Per quanto riguarda le competenze in lettura e in scienze (figura 5 e figura 6) l’andamento dei risultati italiani rispecchia quello della media UE seppure in maniera più altalenante8 Se fino al 2012 si registrava una progressiva diminuzione della quota di studenti con difficoltà in lettura e nelle materie scientifiche, da quell’anno il trend si è invertito ritornando a crescere.. Inoltre, si affievoliscono le differenze di performance in relazione al genere: se lo scarto tra ragazzi e ragazze che hanno ottenuto punteggi non adeguati nelle discipline scientifiche (figura 7) è arrivato ad essere praticamente nullo per l’anno 2018, per quanto riguarda le competenze matematiche (figura 8) si osserva una graduale diminuzione dello svantaggio delle studentesse di quindici anni in quest’area disciplinare rispetto ai loro coetanei maschi. Tuttavia, rimane rilevante lo scarto tra studenti e studentesse quindicenni relativo ai risultati ottenuti nei test di lettura (figura 9). La quota di ragazze che non raggiunge risultati adeguati in quest’ambito è nettamente inferiore rispetto a quella della controparte maschile.9 Per l’anno 2018 la distanza è di circa 9 punti percentuali.
Un evidente squilibrio Nord-Sud nella quota di studenti che non hanno raggiunto livelli di competenza adeguati
I dati prodotti dai test INVALSI sulla popolazione di studenti del terzo anno di scuola secondaria di primo grado mostrano un evidente squilibrio tra le percentuali di studenti con competenze non adeguate in matematica e lettura tra le regioni del Centro-Nord rispetto a quelle del Sud e delle Isole (figura 10 e figura 11).10 Lo svantaggio risulta particolarmente grave in Campania e Calabria dove circa il 60% degli studenti non raggiunge punteggi adeguati nei test che misurano le competenze matematiche (il doppio rispetto a Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) e uno studente su due in quelli che misurano le competenze alfabetiche e di lettura (il doppio rispetto a Lombardia, Friuli-Venezia Giulia e Marche).
Il quadro delineato da questi indicatori restituisce l’immagine di un sistema scolastico che, in maniera particolarmente grave nelle regioni più svantaggiate del Paese, fatica a trasmettere efficacemente ai propri studenti competenze di base in aree disciplinari fondamentali.
Un altro dato che conferma la difficoltà della scuola nella trasmissione di competenze e conoscenze agli studenti è quello sulla cosiddetta “dispersione implicita” – un fenomeno che riguarda gli studenti che arrivano a completare il ciclo di istruzione secondaria di secondo grado con un livello di competenze pari a quello registrato al primo anno – che riguarda quasi il 10% degli studenti italiani di quinta superiore.11 INVALSI – Rilevazioni Nazionali degli Apprendimenti A.S. 2020-2021
Pandemia e didattica a distanza: gli impatti negativi sul livello di competenze degli studenti italiani
I risultati delle prime prove INVALSI svolte dopo l’avvento del Covid-1912 Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione per il 2021 hanno mostrato un netto peggioramento nei livelli di apprendimento degli studenti rispetto al 2019. Su scala nazionale la quota di studenti che non ha raggiunto punteggi adeguati in italiano e matematica è aumentata di circa 5 punti percentuali rispetto al 2018.
L’impatto negativo della pandemia sulle competenze degli studenti è stato ancora più intenso nelle regioni del Mezzogiorno. Più in generale, la didattica a distanza ha aumentato lo svantaggio degli studenti provenienti da contesti socioeconomici già in precedenza marginali e deprivati13 INVALSI – Rilevazioni Nazionali degli Apprendimenti A.S. 2020-2021.
Il problema non riguarda solo le generazioni più giovani. Le indagini che analizzano la fascia 15-64 anni vedono l’Italia collocarsi significativamente al di sotto della media, tra le ultime posizioni assieme a Francia, Spagna e Turchia.14Skills Matter: Further Results from the Survey of Adult Skills, OECD Skills Studies, OECD Publishing, Paris. Le indagini sono state condotte dall’OCSE sulla popolazione adulta degli stati membri (15-64 anni), che si sono concentrate sulla misurazione delle competenze numeriche e di lettura. La carenza in queste competenze di base è comunemente definita analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di comprendere a pieno il significato di un messaggio pur essendo in grado di decodificare il significante. (OECD, 2016)
Inoltre, i test PISA consentono di osservare solo una piccola parte dello spettro delle competenze. Tra queste le cosiddette soft skills, o competenze trasversali, oggi particolarmente ricercate a livello professionale, che difficilmente possono essere insegnate all’interno di un’aula scolastica tramite la classica lezione frontale15 Si tratta di competenze che riguardano abilità relazionali, attitudine al lavoro in gruppo, problem solving, capacità di leggere e gestire la complessità, flessibilità e pensiero creativo..
Competenze digitali di base inferiori alla media europea. Non sempre le nuove generazioni raggiungono i livelli di digital skills delle coorti più anziane
A seguito della pandemia un buon livello di padronanza delle digital skills è un elemento ancora più richiesto dal mercato del lavoro16 Per fornire una misura del livello di competenze digitali dei cittadini europei Eurostat, attraverso la ICT Survey, costruisce un indicatore in grado di prendere in considerazione i diversi aspetti che concorrono a formare un concetto sfaccettato e multidimensionale come quello di digital skills. Scomponendo la nozione di competenza digitale in 5 distinte dimensioni (alfabetizzazione informatica, comunicazione e collaborazione, creazione di contenuti digitali, sicurezza e problem solving) Eurostat fornisce un indicatore sintetico che tiene conto dei diversi tipi di competenze necessarie per padroneggiare le ICT, alcune di natura prettamente tecnica e altre che implicano una consapevolezza critica riguardo al funzionamento di internet e dei social media.. In Italia meno di un quarto (23%) della popolazione compresa tra i 16 e i 74 anni raggiunge un livello complessivo di competenze digitali superiore a quello di base (figura 12), 3 punti percentuali in meno rispetto alla media europea, ma meno della metà rispetto ai Paesi europei in cui si osservano le performance migliori (Paesi Bassi, Regno Unito e Finlandia).
Mettendo a confronto i dati disaggregati per genere e fasce di età, lo scarto appare molto contenuto tra la quota di giovani compresi tra i 16 e 19 anni (i cosiddetti “nativi digitali”) che raggiunge un livello di competenze digitali superiore alla media e la corrispondente percentuale registrata per le coorti di adulti compresi tra i 25 e i 54, sia in Italia, sia prendendo in considerazione la media UE (figura 13)17 All’interno della popolazione maschile, lo scarto tra teenager e adulti risulta sostanzialmente nullo, mentre le quota di ragazze comprese tra 16 e 19 anni è più elevata sia rispetto a quella delle donne comprese tra 25 e 54 anni, sia rispetto a quella dei propri coetanei maschi.. Complessivamente lo scarto tra la percentuale di giovani italiani compresi tra 16 e 19 anni che raggiunge un livello di competenze digitali superiore a quello base e la corrispondente media europea risulta essere più elevato rispetto a quello delle coorti di adulti compresi tra 25 e 54 anni, soprattutto per quanto riguarda le ragazze: il divario tra le giovani italiane e la media europea è di 9 punti percentuale, mentre per i coetanei maschi il distacco con la media UE è di 6 punti percentuali.
Non sembra esistere un divario significativo nella capacità di utilizzo delle ICT tra le nuove generazioni di “nativi digitali” e le coorti più anziane a favore dei primi. Anzi, in alcuni Paesi europei (Germania, Paesi Bassi) la quota di individui compresi tra 25 e 54 anni che possiede competenze digitali superiori a quelle di base è nettamente più elevata rispetto a quella dei teenager. Tuttavia, lo svantaggio dei giovani italiani in età scolare rispetto alla media europea è più elevato rispetto a quello degli adulti e diventa particolarmente marcato se il confronto è effettuato con le nazioni best performer.18 Non è possibile confrontare i dati più recenti a disposizione, relativi all’anno 2021, con le serie storiche precedenti in quanto i metodi di rilevazione e costruzione dell’indicatore sono stati modificati in maniera rilevante. Sarebbe stato sicuramente interessante confrontare i primi dati disponibili a seguito del ricorso alla didattica a distanza durante i periodi di lockdown. Come suggeriscono i risultati di alcune indagini qualitative, la sensazione è quella di una crescita nelle competenze digitali degli alunni che negli ultimi anni sono stati costretti a seguire le lezioni da remoto attraverso strumenti informatici.
L’Italia è il quarto Paese europeo per numero di abbandoni precoci dei percorsi di istruzione e formazione
Nonostante il trend sia in costante miglioramento, la quota di giovani italiani compresi tra 18 e 24 anni che abbandona precocemente i percorsi di istruzione e formazione è ancora tra le più alte d’Europa (12.7%) (figura 14). Come si può osservare dalla serie storica (figura 15), il fenomeno è più accentuato tra la popolazione maschile, tanto in Italia quanto nel resto d’Europa.19 Nell’anno 2021 la percentuale di giovani uomini “early leavers” supera il 15% contro il 10% della controparte femminile.
La quantità di abbandoni precoci è distribuita eterogeneamente all’interno del territorio italiano (figura 16): in generale il fenomeno appare più contenuto nel Centro e nel Nord-Est, con percentuali in linea con la media europea, mentre cresce di intensità nelle regioni del Sud (ad eccezione della Basilicata) e nelle Isole, raggiungendo il picco massimo in Sicilia (21.2%). Ai quasi centomila abbandoni scolastici annui, si sommano gli studenti che pur essendo iscritti, non sono ammessi agli scrutini a causa di un numero troppo elevato di assenze. A giugno 2022 il 3,1% degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado non ha completato l’anno scolastico a causa delle assenze secondo i dati del MIUR.
Difficile quantificare l’impatto dell’introduzione della didattica a distanza a seguito dell’emergenza pandemica sul numero di abbandoni scolastici, ma da alcune ricerche20 Indagine Censis realizzata nel 2020 durante il primo lockdown nazionale, interpellando un campione di dirigenti scolastici. emerge una stima approssimativa del 5% di abbandoni scolastici, un dato che raddoppia nelle regioni più svantaggiate del Sud Italia (Censis, 2020).
Terzi in Europa per numero di giovani disoccupati. Lo svantaggio è più marcato per le giovani donne e nelle regioni del Mezzogiorno
Il tasso di disoccupazione giovanile italiano è tra più alti in Europa, quasi il 30%, inferiore solo a Grecia e Spagna, contro una media europea del 16.6% (figura 17). Dopo il picco record del 2014, dovuto all’onda lunga della crisi economica del 2008, il tasso di disoccupazione giovanile è diminuito costantemente fino al 2019 e mostra un lieve segnale di risalita soltanto nel 2020, probabilmente a causa delle quarantene imposte per contrastare la pandemia da COVID-19.
Le giovani donne risultano svantaggiate sistematicamente di qualche punto percentuale rispetto alla controparte maschile, al contrario della media europea da cui non emergono differenze significative basate sul genere (figura 18).
A livello regionale italiano (figura 19) il tasso di disoccupazione cresce seguendo un gradiente Nord-Sud. Tuttavia (eccezion fatta per le province autonome di Trento e Bolzano) anche nelle regioni più virtuose ed economicamente più sviluppate del Nord Italia la quota di giovani disoccupati è significativamente superiore alla media europea. Le regioni del Sud Italia mostrano i tassi di disoccupazione più preoccupanti, in particolare in Calabria (47%) e Sicilia (48.8%). Fenomeno che accomuna i Paesi dell’area mediterranea riconducibile a un complesso intreccio di motivazioni culturali, politiche, economiche e sociali che concorrono a definire differenti modelli di welfare state e familiari, la disoccupazione giovanile presenta tassi molto bassi in Paesi come Germania, Austria e Paesi Bassi anche grazie alla diffusione del sistema di istruzione duale, che consente agli studenti-lavoratori di alternare momenti di formazione scolastica al lavoro in azienda.21 In queste Nazioni gli studenti che scelgono questi percorsi di istruzione secondaria sono considerati a tutti gli effetti dei lavoratori e quindi conteggiati come tali dalle rilevazioni statistiche.
Un giovane su cinque non lavora e non studia: il tasso di NEET italiano è nettamente il più alto in Europa
Nel nostro Paese, quasi un giovane tra i 15 e i 24 anni su cinque non è coinvolto in alcun tipo di attività lavorativa, di istruzione o di formazione, la quota di giovani NEET italiani è nettamente la più alta d’Europa (figura 20).22 Il tasso di NEET (Not in Education, Employment or Training), rispetto al tasso di disoccupazione, ha il vantaggio di essere più stabile nel corso del tempo ed è in grado di restituire un’informazione sintetica circa lo svantaggio dei giovani nel processo di transizione scuola-lavoro comprendendo al suo interno fenomeni diversi ma correlati (disoccupazione, inattività, scoraggiamento, abbandono precoce dei percorsi di istruzione e formazione). Lo scarto rispetto alla media UE è di circa 8 punti percentuali.
Al contrario di quanto avviene per la disoccupazione giovanile, in Italia, il fenomeno coinvolge in misura sostanzialmente identica sia la popolazione maschile che quella femminile e fino al 2019 il trend era in contrazione dopo aver toccato il suo picco massimo nel 2013 (figura 21). Anche in questo caso nelle regioni meridionali il fenomeno si manifesta in maniera più allarmante (figura 22).23 In Sicilia (30.2%) quasi un giovane su tre non lavora, non studia e non è coinvolto in percorsi di formazione mentre in Campania (27.7%), Calabria (27.2%) e Puglia (24.6%) circa un giovane su quattro. Ciononostante, anche i dati relativi alle regioni centro-settentrionali sono tutt’altro che confortanti: in tutte le regioni italiane il tasso di NEET è molto più elevato rispetto alla media dell’Unione Europea. In Italia, risulta particolarmente alta la proporzione di NEET che sperimentano lunghi periodi di disoccupazione (superiore a 12 mesi) e che non sono alla ricerca di lavoro perché scoraggiati. Più contenuta è la quota di NEET che non partecipano al mercato del lavoro a causa di malattie e disabilità o per responsabilità di cura di uno o più membri della famiglia (Eurofund, 2016)24 Eurofund (2016) Exploring the diversity of NEETs. Lo studio condotto da Eurofund nel 2015 analizza il fenomeno scomponendo la popolazione di NEET in diversi sottogruppi basati su diverse caratteristiche: età, livello di istruzione, background socio-economico, durata del periodo di disoccupazione, motivazione della mancata partecipazione al mercato del lavoro. Comprendere l’eterogeneità dietro all’etichetta di NEET è di fondamentale importanza nell’adozione di misure di contrasto a questo fenomeno. Comprendere le caratteristiche specifiche del target a cui si rivolgono gli interventi è cruciale per la costruzione di policy mirate ed efficaci, soprattutto per intercettare le fasce di NEET più marginali e meno dotate di capitale culturale e sociale.. In media, i NEET più vulnerabili sono i meno giovani, soprattutto se si estende la fascia di età considerata fino ai 29 anni, e i meno istruiti. È probabile che una quota significativa di giovani italiani, disoccupati e NEET, sia impiegata in occupazioni irregolari, soprattutto nel Sud Italia25 I giovani che svolgono attività lavorative irregolari possono così ricadere sia nel conteggio del tasso di disoccupazione, nel caso siano nel frattempo alla ricerca di un’occupazione regolare, sia nel tasso di NEET. Un recente studio della CGIA di Mestre (2021) fornisce una stima dell’occupazione irregolare in Italia, mostrando come il fenomeno sia particolarmente preoccupante nel Mezzogiorno. A seguito della pandemia, come rileva il centro studi di CGIA, la quota di occupati irregolari è destinata a crescere ulteriormente in maniera consistente .
Il livello di istruzione medio della popolazione italiana continua ad essere tra i più bassi in Europa
Nonostante il trend sia in costante contrazione (figura 23), in Italia continua ad essere molto elevata la quota di individui compresi tra i 25 e i 64 anni ad aver raggiunto al massimo un livello di istruzione superiore di primo grado26 A livello internazionale, la definizione è “lower secondary”, ovvero un titolo compreso tra il livello 0 e 2 del sistema internazionale di classificazione dei livelli di istruzione ISCED 2011. (licenza media, 37.3% al 2021). La quota italiana è inferiore solo a Malta e Portogallo e, soprattutto, molto distante dalla media UE (20.7%) (figura 24).
A livello nazionale, tutte le regioni italiane superano abbondantemente la media europea, nelle regioni del Centro e del Nord la quota si attesta tra il 28.7% di Lazio e Umbria e il 35.8% del Piemonte, mentre cresce in maniera consistente nelle regioni del Sud e nelle Isole (figura 25).27 Ad eccezione di Basilicata e Molise, in tutte le rimanenti regioni del Sud e nelle Isole si osservano valori superiori al 45%.
Parallelamente, continua ad aumentare in Italia la quota di laureati o in possesso di altri titoli terziari (ISCED 5-8) (figura 26). Tuttavia, poiché la crescita avviene allo stesso ritmo di quello della media europea, il divario rimane costante nel tempo.
Osservando la serie storica della popolazione di laureati italiani, la crescita della quota femminile risulta più intensa rispetto a quella della controparte maschile28 Il distacco che nel 2010 era di circa 9 punti percentuali in favore delle donne è arrivato a toccare i circa 12 punti percentuali dopo undici anni.. Nel confronto con le altre nazioni europee, l’Italia si colloca al penultimo posto per numero di laureati (figura 27) considerando sia la fascia di popolazione compresa tra i 25 e i 64 anni (20%), sia restringendo il campo ai giovani adulti compresi tra i 25 e 34 anni (28.3%). Tra le regioni del Centro e del Nord si osservano ancora una volta le performance migliori con quote di laureati compresi tra 25 e 34 anni che, ad eccezione della Provincia autonoma di Bolzano (24%), si avvicinano al 30%. Nelle regioni del Sud, la quota di giovani adulti laureati supera di poco il 20%, ad eccezione di Molise e Basilicata dove il dato osservato è in linea con le regioni centro-settentrionali (figura 28).
Nonostante siano relativamente pochi, i neolaureati italiani hanno maggiori difficoltà a trovare lavoro rispetto al resto d’Europa
La quota di laureati italiani, esigua in confronto alle altre nazioni europee, riesce a trovare un’occupazione a tre anni dal conseguimento del titolo con maggiore difficoltà rispetto a quanto avviene negli altri paesi dell’Unione. Il tasso di occupazione dei neolaureati compresi tra 20 e 34 anni è il secondo più basso d’Europa, superiore solo a quello della Grecia, mentre se si allarga il campo anche ai neodiplomati il dato italiano è il più basso in assoluto, circa 22 punti percentuali al di sotto della media UE (figura 29). La quota di neolaureati e neodiplomati occupati è fortemente eterogenea all’interno del territorio italiano (figura 30).29 Nelle regioni del Nord-Est e in Emilia-Romagna si osservano le quote più elevate, tutte prossime al 70%, ma comunque distanti 7-8 punti percentuali dalla media UE. La Provincia autonoma di Bolzano che, con quasi l’80% di neolaureati e neodiplomati occupati a distanza di tre anni dal conseguimento del titolo, è l’unica regione italiana che si colloca al di sopra della media europea. Le regioni del Centro e del Nord-Ovest si collocano in una posizione intermedia che varia dal 48% del Molise al 67.4% della Toscana. Nelle regioni del Sud e nelle Isole si raggiungono le quote più basse che vanno dal 32.3% della Sicilia al 46.3% della Sardegna. Risultano ancora particolarmente svantaggiate le donne (figura 31) che, nonostante acquisiscano titoli di studio elevati in misura maggiore rispetto agli uomini, hanno più difficoltà a trovare un impiego dopo aver completato il ciclo di studi.30 Le donne italiane neodiplomate o neolaureate che risultano occupate entro tre anni dal conseguimento del titolo sono circa il 52% contro il 59% degli uomini. Lo svantaggio femminile nell’accesso al mercato del lavoro è osservabile anche nella media europea, tuttavia è molto più contenuto.
Cresce in Italia la partecipazione degli adulti all’apprendimento continuo
Nel 2021 la percentuale di italiani compresi tra i 25 e 64 anni coinvolti in percorsi di formazione, formale o informale, per la prima volta arriva a sfiorare il 10%, avvicinandosi considerevolmente alla media UE (10.8%) (figura 32). Nel corso degli ultimi due anni, la partecipazione degli adulti alla formazione continua è stata fortemente influenzata dall’emergenza pandemica in tutta Europa, seppure con intensità diversa. I periodi di quarantena imposti dai governi nazionali hanno avuto un impatto considerevole sul regolare svolgimento dei corsi di formazione, come conseguenza per l’anno 2020 è osservabile una flessione, più o meno marcata a seconda dei diversi contesti nazionali, della percentuale di adulti che partecipano all’apprendimento (figura 33). Nel corso del 2021 la partecipazione alla formazione continua è tornata a crescere in molti paesi europei, in Italia toccando livelli persino più alti di quelli del 2019. La ripresa dell’Italia su questo versante sembra essere incoraggiante anche osservando le differenze territoriali interne. La quota di adulti che partecipa alla formazione continua è mediamente più elevata nelle regioni del Nord e del Centro con quote percentuali che superano il 10%, toccando quasi il 15% nel caso della Provincia autonoma di Trento, mentre le regioni del Sud rimangono distaccate di alcuni punti percentuali (figura 34). Tuttavia, le regioni del Centro e soprattutto del Sud hanno sperimentato una crescita molto più intensa rispetto ai livelli pre-pandemici (figura 35).31 In particolare, la partecipazione degli adulti alla formazione continua è cresciuta rispetto al 2019 del 33% nel Lazio, del 36% in Campania e Basilicata, del 37% in Calabria e del 48% in Sicilia che rimane comunque il fanalino di coda a livello nazionale. Ciononostante, i numeri della formazione continua in Italia sono ancora ben lontani dagli obiettivi fissati dalla Commissione Europea per i prossimi anni32 Nell’ambito dell’European Pillar of Social Rights Action Plan, la Commissione Europea ha fissato per il 2025 l’obbiettivo del 47% di adulti impegnati in attività formative ogni anno, mentre dovrebbe raggiungere il 60% nel 2030.
POLICY
“Basic Education Act” – Le politiche per la scuola e la formazione del Governo finlandese
Le scelte di policy che riguardano il sistema scolastico e l’investimento pubblico nell’educazione sono tra quelle strategicamente più sensibili per lo sviluppo e l’accrescimento di un paese nel lungo periodo e, in quanto scelte che abilitano ed autorizzano in modo intertemporale i potenziali contributivi delle persone nelle comunità, sono tra le policy che maggiormente possono avere un impatto generativo.
Al di là di sterili contrapposizioni ideologiche tra sistemi di istruzione pubblica e privata o tra approcci meritocratici ed inclusivi, guardando criticamente ai dati di performance dei sistemi educativi a livello globale, ciò che fa la differenza in senso generativo per una policy della scuola e della formazione è anzitutto il riconoscimento della centralità dei sistemi educativi primari per lo sviluppo complessivo di un paese e, di conseguenza, l’impostazione coerente e trasversale dell’intero sistema su tale centralità.
Paradigmatico in questo caso è certamente il caso delle politiche per la scuola e la formazione della Finlandia, espresse nel “Basic Education Act” che, dal 1998 e con successive riforme, ha strutturato un sistema educativo e scolastico che da decenni produce risultati tra i più significativi al mondo (OECD, 2022) e che può certamente essere considerato generativo e dall’elevato potenziale contributivo.
Breve Descrizione della Policy
Il “Basic Education Act” finlandese discende da una peculiare visione olistica dell’educazione primaria, che non concepisce la scuola come sede funzionale per prestazioni educative volte all’acquisizione passiva di nozioni, ma come laboratorio avanzato di cittadinanza e inclusione sociale, composto non solo dagli alunni ma anche dagli insegnanti, dalle famiglie e dalle comunità, che consente di riconoscere i talenti e le competenze degli alunni, di farle interagire e sperimentare in modalità differenti, di accompagnare la crescita personale, anche in funzione delle successive fasi del ciclo di vita, con strumenti dedicati e personalizzati (K. Maaranen e K. Stenberg, 2021).
In questo senso vi sono alcuni pilastri particolarmente rilevanti che connotano la policy finlandese e la rendono tra quelle meglio performanti al mondo sotto una pluralità di indicatori, non solo prestazionali:
- opzione nazionale per una knowledge-based economy;
- visione olistica e basata sui diritti;
- orientamento intertemporale e rivolto alla sostenibilità sociale, ambientale ed economica;
- riconoscimento e valorizzazione del ruolo anche sociale degli insegnanti;
- riconoscimento del valore dei saperi e delle competenze anche informali e del ruolo della comunità nell’educazione, anche in senso intergenerazionale;
- riconoscimento e valorizzazione inclusiva dei talenti di ogni singolo alunno e diritto ad apprendere nella propria lingua nativa;
- costruzione di portfolio formativi differenziati e flessibili, non in funzione delle esigenze delle imprese ma per concorrerle a determinarle in una visione che determina l’educazione come un fine in sé;
- l’adozione dei principi del life-long learning per lo sviluppo delle competenze nei differenti contesti di apprendimento in maniera intersettoriale tra diversi ambiti di policy relative all’educazione e alla formazione;
- la strutturazione di approcci didattici Phenomenon-based, costruiti intorno all’apprendimento per risolvere questioni attinenti alla vita reale della comunità, ricercando le possibili soluzioni sotto diverse prospettive;
- la misurazione dell’impatto degli output è una componente della valutazione e dell’implementazione strategica dei diversi pilastri che compongono le politiche educative finlandesi.
In generale si può affermare che, ove il ruolo sociale e professionale degli insegnanti sia adeguatamente riconosciuto e la loro autonomia valorizzata, e la scuola e la formazione vengano concepite come dispositivi abilitanti in un’ottica di continuità nel benessere lungo tutto il ciclo di vita, la spesa per l’istruzione di un paese può diventare davvero investimento in una economia della conoscenza di tipo generativo e contributivo; ciò non tanto perché vengono ben “addestrati” saperi intellettuali funzionali alla produzione, quanto perché vengono riconosciute, mobilitate e messe al lavoro in modo diffuso energie nuove, ulteriori e differenti da quelle tradizionali, che, includendole, favoriscono l’innovazione e l’adattamento dell’intera società alle sfide mutevoli del benessere.
Non si può negare che nel caso finlandese la costruzione del modello di governance integrata e trasversale che ha permesso il successo del modello abbia anche un notevole punto di appoggio nella particolare cultura del paese e nel modello scandinavo di welfare che li connota, ambedue fortemente informati da una spiccata visione comunitarista e da una notevole attenzione per i temi della solidarietà e dell’eguaglianza delle opportunità e dell’equilibrio etico fra diritti e doveri del cittadino. Ciò non toglie tuttavia che, anche in confronto all’esperienza di altri paesi dalla cultura simile, il mix di soluzioni adottato dalla Finlandia risulti particolarmente significativo, inclusivo e performante.
Degno di nota è in particolare il fatto che le performance di eccellenza del sistema scolastico, nel più ampio contesto delle politiche finlandesi, contribuiscano in parte non irrilevante a sostenere le ottime performance che il paese registra anche nel campo dell’innovazione, del welfare, della demografia, della gestione dei flussi migratori e della qualità della partecipazione civica diffusa.
Va infine sottolineato che, sotto le pressioni delle più recenti crisi e transizioni e anche in conseguenza del recente brusco aumento delle spese per la difesa del paese conseguenti alla situazione Ucraina, il governo finlandese sembra aver adottato, dal 2015 ad oggi, una politica di riduzione dei costi che investe anche l’istruzione, con un non irrilevante definanziamento di alcuni istituti. Ciò è causa di ampio dibattito e forti critiche nel paese e, per quanto giustificato con argomenti pragmatici e non con un mutato orientamento politico, sta facendo emergere in modo diffuso quanto la popolazione finlandese abbia ormai interiorizzato l’assetto educativo del paese come un elemento identitario e caratterizzante.
Le recenti riforme del sistema scolastico italiano, messe a sistema e potenziate con i fondi del PNRR, per quanto in alcuni aspetti riprendano e provino a introdurre sistematicamente alcuni aspetti di accompagnamento degli studenti, orientamento e personalizzazione dei percorsi formativi non dissimili da quanto accade in Finlandia, appaiono però ancora molto lacunose dal punto di vista della visione generale e, soprattutto, incapaci di condurre ad un cambio di paradigma culturale ed economico in ordine al ruolo degli insegnanti e dei loro effettivi poteri di indirizzo dei processi scolastici, al contrario ancora troppo concepiti ed imbrigliati entro una gabbia burocratica rigida e poco permeabile alla società esterna e alla comunità.
RISORSE
Argentin, G. (2018). Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento. Il Mulino, Bologna.
Blossfeld, H.P. e Mills, M. (2006). Globalization, uncertainty and the early life course. A theoretical framework, in Blossfeld, H. P., Klijzing, E., Mills, M., & Kurz, K. (2006). Globalization, uncertainty and youth in society: The losers in a globalizing world. Routledge.
Censis (2020) Italia sotto sforzo, Diario della transizione 2020. Censis: Roma.
Eurofund (2016). Exploring the diversity of NEETs. Publications Office of the European Union, Luxembourg. https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_publication/field_ef_document/ef1602en.pdf
European Commission e EACEA (2021). Adult education and training in Europe: Building inclusive pathways to skills and qualifications. Eurydice Report. Luxembourg: Publications Office of the European Union.
Giaccardi, C., Magatti, M. (2022). Supersocietà. Il Mulino, Bologna.
Invalsi – Rilevazioni Nazionali degli Apprendimenti A.S. 2020-2021.
Maaranen, K. e Stenberg, K. (2021). Teacher Effectiveness in Finland: Effectiveness in Finnish Schools in International Beliefs and Practices That Characterize Teacher Effectiveness. IGI Global, pp. 125-147.
Mesa, D. (2014). La giovinezza nelle società in transizione. Un approccio morfogenetico. Franco Angeli, Milano.
Morin E., (2000). La testa ben fatta. Raffaello Cortina, Milano.
OECD (2016), Skills Matter: Further Results from the Survey of Adult Skills. OECD Skills Studies, OECD Publishing, Paris.
OECD (2022), Education at a Glance. OECD Indicators, OECD Publishing, Paris.
Ufficio Studi CGIA (2021). Sos caporalato e lavoro nero: con il covid sono in aumento. News del 18 dicembre 2021.