in questo capitolo:
INTRODUZIONE
L’intrapresa: motore dello sviluppo economico, sociale e ambientale
L’iniziativa imprenditoriale costituisce uno dei principali dinamismi da cui dipendono la prosperità e la sostenibilità di un contesto sociale. Tradizionalmente considerato come il motore fondamentale del progresso economico (G. Berta, 2004), intraprendere è anche una leva indispensabile nella creazione di risposte alle sfide sociali e ambientali (P. Cappelletti 2018; C. Giaccardi e M. Magatti, 2022).1 Nella prospettiva assunta, l’impresa e l’imprenditore sono considerati attori sociali responsabili del proprio agire, il quale non si propone la sola massimizzazione del profitto per sé, ma la contribuzione alla generazione di multiforme valore per molteplici stakeholder. ESPANDI
PRINCIPALI EVIDENZE
Un tasso di natalità di impresa sensibilmente più basso della media europea
Il tasso di natalità delle imprese italiane si colloca ormai da anni ben al di sotto della media europea, (figura 1 e figura 2). Un dato che va collegato anche al basso posizionamento nei ranking internazionali per vivacità imprenditoriale della popolazione adulta.6 Si veda Rapporto GEM Italia 2021-2022. Il report raccoglie i dati italiani per l’anno 2021 dell’indagine Global Entrepreneurship Monitor (GEM) e riserva una particolare attenzione al tasso di nuova imprenditorialità TEA (Total Early Stage Entrepreneurial Activity), un indicatore che misura la percentuale della popolazione adulta di età compresa tra i 18 e i 64 anni che al momento dell’indagine stava avviando o aveva avviato una impresa da meno di 42 mesi. Come rimarca il Rapporto GEM Italia 2021-2022, il ritardo si rileva tanto a livello globale, quanto nel confronto con Paesi che vantano un livello di sviluppo industriale simile a quello italiano. Per di più, questo andamento negativo vede negli anni più recenti ampliare il gap esistente, confermando la natura strutturale del problema (GEM-Italia, 2022).
L’analisi regionale della natalità di impresa illumina importanti differenze territoriali (figura 3). L’area del Centro-Sud appare essere la più proattiva, per quanto la natalità sia bilanciata da tassi di mortalità più elevati.
Il periodo del Covid ha avuto un impatto negativo sulla propensione all’intrapresa e in tutta Italia si è assistito ad un calo delle nuove iscrizioni,7 Secondo Banca d’Italia (2022), l’epidemia avrebbe causato una diminuzione del PIL italiano dell’8,9%. Efficace è stata l’introduzione dell’ampio ventaglio di misure che hanno contenuto l’uscita dal mercato delle imprese. Una tendenza che si riconferma anche nel 2021. con un arresto più significativo al Nord (Banca d’Italia, 2022).
Secondo Unioncamere (2022), dopo un interessante rimbalzo post-pandemia nel 2021, il secondo trimestre 2022 sembra segnare un movimento di ripresa, seppur debole, relativamente alle nuove iscrizioni, e di normalizzazione rispetto alle cancellazioni: raggiungono la cifra di 32.406 le imprese in più (in avvicinamento alla media dell’ultimo decennio), mentre sono 82.603 le nuove iscrizioni (il secondo peggior risultato del decennio) e 50.197 le cessazioni (che, dopo la diminuzione nel 2020, appaiono in crescita). Un terzo del saldo – circa 11.500 imprese – sono nate al Centro-Sud, mentre a livello regionale spicca il dinamismo della Lombardia, con un aumento di circa 5.800 imprese.8 Nel biennio 2020-2021 l’Italia si colloca tra i Paesi con il più basso tasso di cessazioni o uscite in particolare per motivazioni legati alla pandemia. Questo suggerirebbe l’efficacia delle iniziative adottate a sostegno alle imprese (GEM-Italia, 2022).
Dal punto di vista settoriale, sono le costruzioni a mostrare il miglior andamento9 Secondo Banca d’Italia (2022) nel 2021 il livello pre-pandemia è stato superato solo nel comparto dell’edilizia che ha goduto di incentivi fiscali speciali per la riqualificazione del patrimonio immobiliare., seguite dalla ripresa delle attività turistiche e da quelle professionali, scientifiche e tecniche (Ibidem)
Uno scarto importante tra “propensione” all’intrapresa e sua effettiva “attivazione”
Nel confronto rispetto alla vivacità dell’attività imprenditoriale, il nostro Paese non solo si colloca negli ultimi posti nel panorama internazionale, ma vede cresciuta anche la distanza con gli altri Paesi UE (figura 4).10 All’interno del Rapporto GEM Italia 2021-22 (GEM-Italia 2022), l’indicatore TEA (Total early-stage Entrepreneurship Activity) misura il livello di attività imprenditoriale nella popolazione adulta (18-64 anni). Viene qui considerata sia l’impresa nascente, sia l’iniziativa imprenditoriale avviata da meno di 42 mesi. In Italia, a seguito della crisi del 2008, il TEA ha visto un calo significativo nel 2009 e 2010. In seguito, si assiste ad un recupero (incostante) fino al 2015, quando il TEA raggiunge nuovamente i livelli precedenti alla crisi (attorno al 5%). Dal 2016, si inverte l’andamento fino al crollo nel biennio 2019-2020, quando viene toccato il valore più basso dell’intero periodo. Nel 2021, un recupero porta il TEA italiano a riavvicinarsi ai livelli del 2015.
Come già anticipato, è necessario distinguere la “propensione” all’intraprendere dalla sua effettiva “attivazione”. Su questo punto, i dati presentati da GEM Italia 2021-2022 sono eloquenti: nonostante un miglioramento nel 2021 sul 2020 dei valori assoluti tanto nell’intenzione quanto nell’attivazione imprenditoriale, nel nostro Paese lo scarto tra i due momenti resta significativo (figura 5). Inoltre, mentre in Europa il rapporto tra propensione e attivazione supera mediamente il 60%, in Italia esso si mantiene attorno al 40%.
Relativamente alla propensione imprenditoriale, l’Italia risulta in linea rispetto ad altri Paesi europei (GEM, 2020)11Ad esempio, rispetto alla considerazione dell’imprenditorialità come opportunità di carriera, o allo status sociale attribuito all’imprenditore. per quanto riguarda l’incidenza di motivazioni legate allo status sociale degli imprenditori o all’imprenditorialità come buona opportunità di carriera (figura 6): poiché l’attivazione imprenditoriale nel nostro Paese risulta invece più bassa, è ipotizzabile che in Italia intervengano fattori frenanti.12 In un confronto globale, l’Amway Enterpreneurship Report 2020, segnala a questo riguardo risultati leggermente inferiori per il nostro Paese. Il 42% dei rispondenti italiani alla survey dichiara di essere interessato ora o in futuro ad avviare una propria impresa, contro il 57% dei rispondenti a livello globale.
Quella italiana è ancora sostanzialmente una intrapresa per opportunità
Nei Paesi più evoluti come l’Italia si intraprende più per opportunità che per necessità (figura 7).13 Si intraprende “per opportunità” quando l’iniziativa costituisce una occasione di affermazione personale, creatività, indipendenza, possibilità di crescita. Diversamente si intraprende “per necessità” quando la spinta imprenditoriale risponde ad esigenze di natura economica. In Italia, l’intrapresa per necessità compare raramente, anche grazie a un contesto connotato da una sostanziale sicurezza economica e dalla garanzia di servizi essenziali offerti dal sistema di welfare italiano e dalle protezioni informali delle famiglie.
Il 2021 segna, tuttavia, un aumento del TEA per necessità, verosimilmente a seguito del Covid (GEM- Italia, 2022). Un dato ripreso anche da altre analisi sulle motivazioni che spingono all’avvio di una nuova impresa (Sistema Informativo Excelsior, 2021). A questo proposito, i dati segnano tre principali differenze territoriali. La prima riguarda l’esigenza di trovare un lavoro (primo o nuovo) e che risulta più elevata al Sud rispetto al Nord. La seconda investe la difficoltà di trovare un lavoro dipendente stabile, che è massima al Sud e nelle Isole ed è invece minima al Nord. La terza, infine, afferisce all’insoddisfazione per l’attuale lavoro, che si rivela più alta al Nord e più bassa al Sud.
Questi dati suggerirebbero l’emergere di un profilo di attivazione differente per le macroaree Nord e Sud, dove le motivazioni prioritarie sono legate alla sfera della “necessità” per il Sud, mentre sono più prossime alla sfera dell’intrapresa “per opportunità” al Nord (Ibidem).
Un imprenditore dal profilo prevedibile: maschio, di età mediana e con livelli di istruzione medi
Ma chi intraprende oggi, in Italia? Dai dati del sistema informativo Excelsior (2021), l’analisi della distribuzione delle nuove imprese secondo l’età del titolare vede prevalere la fascia mediana (35- 50 anni); seguono gli under 35 e, quindi, gli over 50 (figura 8). Il dato va inserito nel quadro delle evoluzioni della demografia italiana che vede un peso crescente rispetto a quasi tutti i Paesi europei delle classi più anziane. Considerata l’inferiore propensione imprenditoriale della componente anziana, sarebbe a questo punto possibile supporre che la minora attivazione imprenditoriale osservata per l’intera popolazione italiana possa essere in qualche misura ricondotta alla distribuzione per età dei titolari di nuove imprese (GEM-Italia, 2022).
Esiste una relazione positiva tra livelli di istruzione e propensione imprenditoriale14 Si vedano le indagini GEM secondo le quali chi possiede una laurea appare più propenso all’intrapresa di chi ha una istruzione secondaria e, a scalare, quest’ultimo lo è maggiormente di chi ha un percorso formativo di livello inferiore. che contribuirebbe a spiegare almeno parzialmente il ridotto TEA del nostro Paese, poiché l’Italia si caratterizza per una bassa percentuale di laureati rispetto agli altri Paesi europei. Nel nostro Paese, i dati relativi al 2021 segnalano come l’avvio della maggior parte delle nuove iniziative imprenditoriali sia avvenuta da parte di soggetti con alle spalle percorsi di studio non oltre la scuola superiore (Ibidem)15 Nel caso di imprenditorialità per opportunità i profili crescono e vedono il raggiungimento della laurea o di scuole di specializzazione..
In Italia i tassi di attivazione imprenditoriale degli uomini continuano ad essere più elevati di quelli delle donne in tutte le fasce di età. In Italia i tassi di attivazione imprenditoriale degli uomini continuano ad essere più elevati di quelli delle donne in tutte le fasce di età. Secondo i dati raccolti dal Sistema Excelsior 2021, solo il 26,3% delle nuove imprese è guidato da una donna. Una maggiore neo-imprenditorialità femminile si riscontra nella classe over50 (42,1% contro il 20,7% sotto i 35 anni). Rispetto alla dinamica delle classi di età delle nuove imprenditrici, GEM Italia segnala nel 2021 una maggiore attivazione nella fascia 25-34 anni, a differenza di precedenti rilevazioni che vedevano l’iniziativa di donne oltre i 35 anni. Si tratta di un elemento di novità poiché potrebbe essere ricollegato ad un possibile (e atteso) ricambio generazionale.
Le analisi delle cariche di guida e amministrazione svolte all’interno delle imprese sembrano confermare una più ridotta presenza femminile al salire del livello di responsabilità.16 Nel 2021, solo un amministratore su 4 è donna, secondo l’Osservatorio per l’imprenditorialità femminile di Unioncamere-InfoCamere.
Relativamente alla neo-imprenditorialità straniera, le nuove imprese costituite nel 2021 da titolari provenienti da altri Paesi rappresentano l’11% del totale.17 Di questi il 3,5% ha nazionalità̀ comunitaria e il 7,5% extra comunitaria. Sistema Informatico Excelsior, Nuove imprese, 2021, pag. 15. Gli stranieri intraprendono soprattutto nei settori “costruzioni e attività̀ immobiliari” e “industria”. Nei servizi rappresentano solamente il 7,2% delle nuove aziende del settore relativo aperte nel 2021. Guardando al titolo di studio dei neoimprenditori stranieri e considerando la difficile equipollenza, si evidenzia una prevalenza della categoria “nessun titolo di studio” (53%). Rispetto alla distribuzione per età, il 51,2% dei neoimprenditori stranieri ha più di 50 anni. I dati vedono preponderante una neo-imprenditorialità̀ straniera di prima generazione e dal basso profilo in termini di formazione. La distribuzione per genere è però molto più̀ equilibrata che per le imprese costituite da italiani. La neo-imprenditorialità̀ femminile straniera si concentra soprattutto nel Sud Italia.
Un tasso di turn over delle imprese inferiore alla media europea
Il tasso netto di turn over delle imprese, ovvero il saldo tra il numero delle imprese nate e quelle morte sul totale delle imprese attive nell’anno considerato, presenta un tasso negativo e colloca il nostro Paese in una posizione nettamente inferiore alla media europea (figura 9).
Relativamente all’incidenza delle imprese nate tre anni fa e ancora attive sul totale delle imprese attive, il posizionamento dell’Italia è basso (figura 10). A questo riguardo, nel confronto con i maggiori Paesi europei, l’Italia mostra un lieve, tendenziale aumento a partire dal 2014 (figura 11).
Si rileva una certa varietà regionale, con percentuali più elevate nel Centro-Sud (figura 12).
Più che il prodotto, sono tassazione e burocrazia, difficoltà di finanziamento, supporto manageriale e complessità a crescere dimensionalmente, a essere i principali ostacoli che costringono molti neoimprenditori a chiudere un’attività avviata e, tra questi, molti sono i giovani che tentano la via dell’autoimpresa senza avere alcuna esperienza o il know-how necessario: dopo tre anni dalla costituzione, soltanto un’azienda su dodici creata col supporto di un acceleratore universitario resta nel mercato (Politecnico di Torino, 2021).
Solo nel primo semestre 2022 il numero di nuove attività avviate ha registrato un calo dell’8,6%, e nell’attuale scenario di crisi esogena tra il 2021 e il 2022 le società a rischio di default sono cresciute dal 14,4% al 16,1% del totale, con un incremento di 11 mila unità, portandosi a quota 99 mila (CERVED, 2022).
La scarsa propensione alla crescita dimensionale delle nuove imprese
L’occupazione espressa dalle imprese nate da tre anni e ancora attive sul totale appare più alta nel Sud Italia (figura 13). Circa il numero delle imprese ad alto tasso di crescita18 Si tratta di imprese con almeno 10 dipendenti e che ogni anno hanno visto crescere il numero dei loro collaboratori almeno del 10%., quest’ultimo si allinea a quello dell’Europa (figura 14). Più significativi sono nuovamente i dati del Sud Italia dove pesano il ridotto tessuto produttivo e il maggior turn over delle imprese (figura 15).
Negli ultimi anni, come riportato nel Global Entrepreneurship Monitor per l’Italia (GEM-Italia, 2022), le nuove imprese italiane hanno dimostrato una scarsa propensione alla crescita. Anche rispetto alle previsioni di incremento occupazionale, il nostro Paese si attesta in posizione più arretrata rispetto alla media di altri contesti; inoltre, nonostante un significativo miglioramento nel 2021, resta maggioritaria la percentuale di neoimprese che non prevede inserimenti di personale. Le ragioni possono essere ricondotte a fattori esterni (difficoltà di accesso ai finanziamenti e un quadro normativo disincentivante la crescita). Non mancano le cause interne, quali il desiderio di limitare il rischio di impresa e la possibilità di perdita di controllo sulla stessa (Ibidem)19 Questo dato va collegato ai bassi risultati dell’indicatore relativo al grado di innovazione delle nuove imprese in Italia. Le nuove imprese italiane mostrano un contenuto livello di innovazione nell’area locale; inferiore è il livello che riguarda innovazioni più importanti, a scala nazionale o internazionale. . In tutti i settori si assisterebbe ad un processo di “restringimento occupazionale”. Tale dato potrebbe confermare che in Italia le nuove imprese offrono opportunità di lavoro ad un numero sempre più limitato di persone (Unioncamere, 2021a).20 Secondo Unioncamere (2021) si è passati da una media di 2,1 addetti nel 2017, a 1,84 nel 2021. Solo il commercio presenterebbe una dinamica leggermente inversa (da 1,67 addetti per nuova impresa nel 2017 a 1,70 nel 2021). Si tratta di un carattere emergente da monitorare, insieme al secondo fenomeno intercettato dal Sistema Excelsior nel 2021, ovvero la concentrazione settoriale (l’80% delle imprese si colloca nel commercio, nei servizi alle imprese, nelle costruzioni.
Il dato va collocato nel quadro della peculiare struttura produttiva italiana che storicamente si contraddistingue per la preponderanza di unità produttive piccole e medie. In alcuni settori come il commercio, la polverizzazione è assai elevata, con la prevalenza di imprese monopersonali e di microimprese (meno di dieci addetti), ma anche nel comparto industriale italiano si conferma la priorità di realtà di piccole e medie dimensioni rispetto ai maggiori concorrenti europei. Secondo ISTAT (2022), in Italia la presenza di unità con 250 e più addetti sarebbe pari a meno dello 0,1% sul totale delle imprese.
I profili richiesti dalle nuove imprese: il nodo dell’esperienza
Giovani, digitali, innovativi, interessati alla soddisfazione lavorativa e sensibili alla responsabilità sociale d’impresa: sarebbero questi i caratteri della “domanda” da parte delle nuove imprese ed in particolare in quelle giovanili (Unioncamere, 2021).21 Dalle nuove imprese viene confermata, in particolare, la preferenza per collaboratori under30.
Circa le preferenze di genere, emerge un tratto paritario dei collaboratori ricercati dalle nuove imprese. In merito al profilo formativo, nel 2021, i livelli superiori (universitario, ITS e secondario) vengono richiesti molto di più nelle nuove imprese, ed in particolare in quelle giovanili, rispetto al
Diversamente dagli anni precedenti, le rilevazioni a livello provinciale non mostrano una dualità Nord – Sud. Piuttosto, emerge una richiesta di alti profili soprattutto nelle aree periferiche. Ciò sembra indicare un progressivo riequilibrio tra le aree produttive del Paese, in una dialettica inedita, più costruttiva, tra centro e periferia, zone urbane e rurali, dove i distretti produttivi e le filiere di provincia, per competere su un mercato flessibile e globale, vanno ricercando personale di alto profilo in modo non dissimile dai grandi centri urbani (Ibidem).22 Tra le prime 30 province per quota di high skill sul totale delle entrate, solamente 4 sono città metropolitane: Bari quinta; Milano 13esima; Torino 19esima; Firenze 20esima. Ai primi posti risultano Verona (49,6%), Gorizia (48,3%), Padova (45,5%), Rieti (44,7%). Fanalino di coda è Verbano-Cusio-Ossola (10%), come nel 2020, preceduta da Cremona (14,9%) e Taranto (17,1%).
Le ricerche segnalano che per 8 nuove figure inserite su 10 viene richiesto esplicitamente il criterio dell’esperienza. Una questione non certo nuova che rilancia la necessità di una formazione sul campo e l’affiancamento di figure esperte per garantire il passaggio generazionale dei saperi (Ibidem).23 Si tratta di un universo variegato nel nostro Paese che vede storicamente una presenza capillare di piccole imprese a conduzione familiare e perfino unipersonale e che comprende piccoli imprenditori e prestatori d’opera (ISTAT, 2022a).
Gli impatti della pandemia sull’occupazione. Cala il lavoro indipendente e aumenta il lavoro dipendente a breve termine
La fase pandemica ha inevitabilmente impattato sui mercati del lavoro in tutta Europa. Si calcola che nella media UE27 il numero degli occupati tra i 15 e i 64 anni nel 2020 sia sceso di oltre 3,5 milioni, pari all’1,8%, in confronto al 2019 (ISTAT, 2022a). Come riportato nel Rapporto Annuale ISTAT del 2022, in Italia la perdita è stata più importante, con un -3,1% per gli occupati della stessa fascia d’età. Nel nostro Paese non solo si è assistito ad una perdita di lavoro da parte di circa 724mila individui, ma è anche aumentato il divario tra le condizioni dei soggetti più protetti da un punto di vista contrattuale e coloro che, invece, si trovavano già prima del Covid in condizioni di maggiore esposizione. Secondo l’Istat il 55,5% del crollo occupazionale avrebbe riguardato i lavoratori dipendenti a termine; per oltre il 30% i lavoratori indipendenti, mentre la diminuzione avrebbe coinvolto lavoratori con contratto a tempo indeterminato solo per il 12,3% del totale.
È seguita nel 2021 una fase di recupero sul fronte occupazionale che, tuttavia, in Italia non è riuscita ad allineare il Paese al maggiore dinamismo europeo (ITA 0,6% contro 1,5% UE27). Ne risulta un quadro più negativo per l’Italia, che vede aumentare la sua distanza rispetto ai principali indicatori del mercato del lavoro (es. tasso di occupazione e tasso di inattività).24 Nel 2019, il tasso di occupazione della popolazione italiana compresa tra i 15 e i 64 anni si collocava al 59% contro il 68,1% della media EU27. Nel 2021, la stessa percentuale era scesa al 58,2% per l’Italia. Inoltre, nel nostro Paese, tra il 2019 e il 2020 il tasso di inattività è aumentato del 2%. Nel 2021 è diminuito solo relativamente, così da confermare il maggiore gap con l’UE (ISTAT, 2022a).
Nel 2021, si riduce ulteriormente il totale dei lavoratori indipendenti che raggiungono un totale di 4,9 milioni, con una diminuzione di 1,3 milioni rispetto al 2004.25 Si tratta di un universo variegato nel nostro Paese che vede storicamente una presenza capillare di piccole imprese a conduzione familiare e perfino unipersonale e che comprende piccoli imprenditori e prestatori d’opera (ISTAT, 2022a). In particolare, diminuiscono i profili imprenditoriali e quelli dei lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani e commercianti), mentre resta stabile il numero dei liberi professionisti.
Cresce, invece, il lavoro dipendente a tempo determinato con contratto di breve periodo. Secondo l’ISTAT (2022a), in Italia quasi la metà dei dipendenti a termine (46,4%) avrebbe un contratto di durata uguale o inferiore ai 6 mesi.26 Dai primi anni Novanta al 2019 sono raddoppiati i lavori a termine. Nel 2021 si attestano a 2,9 milioni. Aumentato è anche il numero dei contratti di breve durata: nel 2021, il 46,4% dei contratti a termine ha scadenza uguale o inferiore ai 6 mesi. Istat, 2020, pag. 208
Si diffonde anche il part-time, una formula che potrebbe rispondere sia alle esigenze di conciliazione dei lavoratori sia alle richieste di flessibilità organizzativa dei datori di lavoro. Tuttavia, i dati raccontano l’emergere di una formula “involontaria”: nel 2021, in quasi 61% dei casi, il part-time è stato attivato in mancanza di occasioni di lavoro a tempo pieno.
Sembrano dunque emergere elementi di progressiva vulnerabilità del lavoro.
Uno scenario che non favorisce l’intrapresa, mentre gli handicap di contesto si riflettono sulle percezioni soggettive
L’indice NECI (National Entrepreneurship Context Index) – che si propone di offrire una misura sintetica del contesto imprenditoriale nel quadro di economie nazionali – rimanda uno spaccato poco felice del sistema di opportunità imprenditoriale italiano.27 Il National Enterpreneurship Contex Index (NECI) è un indice che deriva da 12 condizioni di contesto: Ambiente finanziario legato all’imprenditorialità; Politiche concrete del governo, priorità e sostegno; Politiche governative burocrazia, tasse; Programmi governativi; Livello di istruzione imprenditoriale a livello primario e secondario; Livello di istruzione imprenditoriale a livello professionale, professionale, universitario e di college; Livello di trasferimento della R&S; Accesso alle infrastrutture professionali e commerciali; Dinamiche del mercato interno; Oneri del mercato interno; Accesso alle infrastrutture fisiche generali e ai servizi; Supporto culturale, norme sociali e società.
Con performance inferiori alla media generale e a quelle dei Paesi più evoluti, l’Italia si colloca al 35esimo posto su 44 Paesi coinvolti nell’indagine nel 2020. Il che si riflette sul sistema delle percezioni: la percentuale di persone che ritengono che in Italia vi siano buone possibilità per l’intrapresa è la seconda più bassa tra i Paesi sviluppati; mentre la percentuale di coloro che pensano sia semplice avviare un’impresa nel nostro Paese è la più bassa tra i Paesi avanzati (GEM-Italia, 2022).
Quali sono le aree di maggiore fragilità del panorama italiano? Lo studio segnala un miglioramento generale rispetto all’anno precedente, tuttavia nel 2021 si confermano per il nostro Paese risultati negativi in alcune aree strategiche: la formazione imprenditoriale, il peso della burocrazia e le condizioni di mercato (Ibidem). (figura 16).
Nuovi modelli di impresa per una nuova economia
Negli ultimi anni, nel nostro Paese lo scenario dell’intrapresa ha visto un interessante dinamismo sul fronte della ricerca di nuovi modelli di business capaci di farsi portatori di una nuova idea di sviluppo sostenibile e contributiva e della generazione di un valore multiforme, oltra la sola dimensione economico-finanziaria.
Il contesto culturale italiano, nonostante le fortissime influenze esercitata dei modelli economici e di impresa anglosassoni, non ha mai spezzato il legame con la sua matrice civica e comunitaria28 Si rimanda alla tradizione dell’economia civile, come pure alle fondamentali esperienze mutualistiche e cooperative. fatta di centralità della persona e di relazioni di reciprocità e solidarietà con i propri territori29 Alcuni esempi di queste forme di imprese sono raccolti nell’Archivio delle generatività sociale. www.generativita.it. Un portato che, nel quadro di una critica crescente agli impatti devastanti di una idea di crescita illimitata, da un lato, ha saputo custodire e reinterpretare un saper fare d’impresa che ha considerato il profitto come parametro e bussola per uno sviluppo sostenibile, e, dall’altro, ha provato a rinnovarsi dando vita a nuove pratiche e grammatiche.
In questo panorama, si colloca ad esempio la diffusione delle B-Corp e delle società Benefit, un fenomeno in espansione in Italia come a livello internazionale, che vede l’impresa inserire formalmente nello statuto dell’impresa il mandato di perseguire obiettivi economici e, insieme, sociali, nell’intento di avere un impatto positivo sulla società e la biosfera (D. Lampugnani 2018).30 Per la normativa relativa alle società benefit si veda DL 1882 del 17.4.2015 sulle Società Benefit L.28-12-2015 n. 208, Comma 376.
Non meno significativo è l’universo dell’impresa sociale (C. Borzaga e M. Musella, 2020) che include anche il movimento cooperativo. Secondo dati Istat ripresi da Iris Network, nel 2018 erano 16.557 le imprese formalmente riconosciute (15.751 cooperative sociali e 806 imprese), con un numero di occupati complessivo di oltre 450.000 persone (figura 17 e figura 18). Nel 2015 il valore economico generato dalle organizzazioni No profit italiane è stato pari a circa 70 miliardi di euro.
A livello regionale, il Nord-Ovest e il Nord Est ospitavano nel 2015 rispettivamente il 26,9% e il 22,5% del totale (di cui oltre il 15% in Lombardia), mentre Centro, Sud e Isole contavano per il 22,7%, il 18,1% e il 9,8% (ISTAT-Euricse, 2021).
Numerose sono le etichette utilizzate per dare conto di una poliedrica ricerca di nuove forme, che combina fenomeni più significativi, come le già citate B-Corp e le imprese sociali, a movimenti di nicchia: dalle imprese di comunione legate all’economia civile alle imprese del bene comune (G. Felber, 2012), dalle start-up innovative a vocazione sociale ai FabLab e al platform cooperativism (D. Lampugnani, 2018).
Se appare impossibile quantificare il fenomeno, è indubbio tuttavia che attorno alla domanda di nuovi modelli di business, più equi, sostenibili e inclusivi, vadano coagulandosi crescenti energie e risorse. Anche a seguito della crescente attesa da parte degli stakeholder nei confronti di comportamenti più sostenibili delle imprese con un loro più significativo impegno a livello sociale e ambientale (IPSOS, 2022).
Il passaggio di testimone: un popolo di imprenditori sempre più anziani
Nel periodo 2013-2023, la questione del passaggio generazionale ha toccato o toccherà oltre un quinto delle imprese italiane, con un coinvolgimento importante delle microimprese (figura 19).
Le analisi segnalano la tendenza degli imprenditori italiani a rimanere alla guida delle loro imprese oltre l’età della pensione. Un fenomeno che provoca un aumento dell’età media dei profili imprenditoriali a 60 anni. Se a ciò si aggiunge l’assenza delle nuove generazioni nei board – uno scenario che connota soprattutto tra le micro e piccole imprese e territorialmente il Mezzogiorno – appare evidente il processo di invecchiamento dell’imprenditoria italiana.31 Il tema è ripreso da Intesa San Paolo (2020) con riferimento al 2018. Circa il 30% del campione della ricerca aveva un capo over 65 e circa il 12% un board tutto over65.
Nel nostro Paese, il passaggio generazionale si traduce principalmente nel mantenimento in famiglia della proprietà e dell’amministrazione. Tuttavia, l’inserimento di profili manageriali esterni a fianco della famiglia proprietaria pare apportare maggiori risultati in termini di competitività (Intesa San Paolo, 2020).
Secondo le indagini (ISTAT, 2021), per tre realtà su quattro il passaggio generazionale ha visto invariato il ruolo della famiglia (proprietaria o controllante); solo per un 7% dei rispondenti esso ha coinciso con un indebolimento o una perdita32 Un 20% dei rispondenti segnala un rafforzamento di posizione. . Il passaggio generazionale italiano sembra dunque configurarsi più come conservazione che occasione di innovazione.
Tra le maggiori difficoltà di questa fase si annoverano, in particolare tra le microimprese italiane, la mancanza di eredi o di successori, fenomeno che andrà ad amplificarsi in futuro; la presenza di ostacoli di natura burocratica, fiscale o legislativa; il trasferimento delle competenze; l’emergere di problemi di ordine economico-finanziario; la presenza di conflitti familiari (figura 20).
POLICY
L’iniziativa imprenditoriale e il dinamismo delle imprese
Il sostegno alla nascita e alla crescita delle imprese da parte delle Istituzioni è una questione multidimensionale e complessa, fortemente influenzata da caratteristiche culturali e storiche oltre che dalla contingenza economico-sociale. Nessuna policy funziona di per sé meglio di altre se si modificano i contesti, anche se, esaminando le politiche esistenti in Europa, alcune si rivelano maggiormente capaci di altre di riconoscere le dinamiche imprenditoriali tipiche del proprio contesto e le modalità di generazione del valore, di abilitare i soggetti ad intraprendere a prescindere dal loro status precedente, di facilitare ed accompagnare i processi di start-up e consolidamento dell’impresa.
In base a tali caratteristiche abilitanti e potenzialmente generative, una policy virtuosa per favorire lo sviluppo ed il consolidamento di impresa in contesti caratterizzati da una larga diffusione delle piccole e medie imprese come quello Italiano, può essere considerata, al netto del traino all’economia locale dato dalla presenza sul territorio di svariate multinazionali attratte da un regime fiscale loro particolarmente favorevole, come nel caso della strategia irlandese per l’imprenditorialità e le piccole medie imprese.
Breve descrizione della Policy
La strategia Enterprise 2025 Renewed, (Government of Ireland, 2018) parte del Piano Nazionale di Sviluppo 2018-2027 dello stato irlandese, è composta da una serie di misure multifattoriali rivolte a tutte le imprese, comprese le PMI, che, opportunamente coordinate tra di loro, agiscono su diversi fronti fortemente abilitanti e che possono essere rilevati nei seguenti elementi salienti:
- l’orientamento a livello locale, mediante i County & City Enterprise Boards, dello spirito imprenditoriale dei cittadini ed in particolare dei giovani, affinché non lascino il paese ed investano talenti nel medesimo;
- la semplificazione delle procedure burocratiche ed amministrative per creare una impresa;
- il sostegno alla fase di start-up mediante una politica fiscale leggera ed incentivante;
- la creazione di condizioni di fiducia generalizzata mediante la garanzia dei finanziamenti e la protezione degli investitori di minoranza);
- il sostegno alla formazione continua dei lavoratori e all’adeguamento degli skill necessari all’innovazione;
- il sostegno finanziario alle PMI per la ricerca, l’innovazione e lo sviluppo nei settori ritenuti strategici per il paese e abilitanti verso la transizione digitale ed ambientale;
- un sistema di governance fortemente integrato e trasversale.
Complessivamente il Piano Nazionale di Sviluppo 2018-27 alloca un budget di € 9,4 miliardi per supportare le imprese, in particolare rivolto verso il sostegno alle PMI in materia di ricerca, competenze e innovazione, sviluppando le misure a livello governativo mediante una governance intersettoriale, guidata dal Department of Business, Enterprise and Innovation che coordina i diversi ministeri, tra cui il Department of Education and Skills, adottando un approccio evidence-based ed impact-oriented nell’allocazione delle risorse ed il monitoraggio permanente dell’efficacia del loro impiego (portfolio approach).
Tale governance integrata e coerente crea fiducia e si è rivelata altamente efficace ed abilitante, permettendo una efficiente integrazione tra misure come l’orientamento scolastico; la formazione di base degli skill imprenditoriali e manageriali; la possibilità di aprire una impresa con poche centinaia di euro in un periodo da 1 a 3 giorni al massimo interagendo con un unico sportello; una tassazione estremamente favorevole per le nuove imprese (zero tasse per tre anni sotto i 40.000 euro di imponibile e 12,5% oltre tale soglia); il supporto finanziario e il credito di imposta per gli investimenti iniziali; la possibilità di ammortamento per i diritti di proprietà intellettuale; una garanzia pubblica limitata ma credibile dell’indebitamento per lo start-up sul mercato venture; la diffusione a livello comunitario di servizi per l’accompagnamento fiscale, giuridico e tecnologico dell’impresa; la disponibilità locale diffusa di spazi pubblici accessibili a basso costo per le start-up; il finanziamento strutturato dell’innovazione; la facilitazione nell’accesso a fondi e reti europee ed intercontinentali di impresa; il sostegno nel tempo alla formazione e all’adeguamento delle competenze tecniche e manageriali.
L’elevato tasso di nascita e consolidamento di nuove imprese in Irlanda e il buon clima di fiducia che, al netto del periodo di lockdown, si registra tra di esse (OECD, 2019), può quindi in larga parte essere ricondotto a tale complesso di policy strategicamente coordinate tra loro e costantemente monitorate e valutate per gli impatti che producono.
Sono probabilmente proprio la capacità di governance, programmazione e valutazione integrata gli elementi distintivi e di successo della strategia irlandese, in quanto singole policy sono analogamente diffuse anche in altri paesi (si pensi ad esempio, per l’Italia, alla Srl semplificata introdotta nel 2012, al piano Industria 4.0 adottato dal Parlamento, agli investimenti sulla formazione permanente previsti dal PNRR) ma, senza un adeguato coordinamento, esse non paiono in grado di conseguire una analoga efficacia abilitante e di sviluppare una corrispondente capacità di generare valore.
RISORSE
Abbansianchavari, A. e Moritz, A. (2021). The impact of role models on enterpreneurial intentions and behaviour: A review of the literature, in Management Review Quarterly, 71(1), pp. 1-40.
Amadori, F. e Colli, A. (1999). Impresa e industria in Italia, Marsilio Editori, Venezia.
Amway (2020). AGER 2020. Amway Enterpreneurship Report 2020.
Banca d’Italia (2022) L’impatto del Covid-19 sui fallimenti e le uscite dal mercato delle imprese italiane. Banca d’Italia, Roma.
Banca d’Italia (2022). Relazione annuale 2021 – Capitolo 6. Le imprese. Banca d’Italia, Roma.
Becattini, G. (2009). Ritorno al territorio, Il Mulino, Bologna.
Berta, G. (2004). L’imprenditore. Un enigma tra economia e storia. Marsilio, Venezia.
Borzaga, C. e Musella, M. (2020). L’impresa sociale in Italia. IV rapporto Iris Network, 2020.
Cappelletti, P. (2018). Generativity-driven organizations, in Social Generativity. A Relational Paradigm for Social Change, a cura di M. Magatti, Routledge, Oxon.
CERVED (2022). Osservatorio rischio imprese. CERVED, Milano.
Esposito, G. F. e Spirito, P. (2013). La costruzione del capitale fiduciario. Motivazione, imprenditorialità e libertà per una nuova politica di sviluppo. FrancoAngeli, Milano.
Felber, C. (2012). L’economia del bene comune. Un modello economico che ha futuro. Tecniche nuove, Milano.
Giaccardi, C. e Magatti, M. (2022). Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà?. Il Mulino, Bologna.
Global Enterpreneurship Monitor (2022). 2021/2022 Global report: opportunity amid disruption. GEM.
Global Entrepreneurship Monitor Italia (2020). Rapporto GEM Italia 2019-2020. Quaderni di Economia Marche, Ancona.
Global Entrepreneurship Monitor Italia (2022). Rapporto GEM Italia 2021-2022. Quaderni di Economia Marche, Ancona.
Government of Ireland (2018). Enterprise 2025 Renewed. Department of Business, Enterprise and Innovation, Dublin.
Iacobucci, D. (2021). Eravamo un popolo di imprenditori. Il declino della propensione imprenditoriale in Italia e come arrestarlo. Quaderni di ricerca sull’artigianato, Fascicolo 1, gennaio-aprile 2021.
Intesa San Paolo (2020). Il passaggio generazionale nelle imprese manifatturiere italiane. Direzione Studi e Ricerche, Torino.
IPSOS – Flair (2022). Nella spirale dell’interregno. Un paese in transizione tra un non più e un non ancora. IPSOS, Milano.
ISTAT – EURICSE (2021). L’economia sociale in Italia. ISTAT, Roma.
ISTAT (2021). Demografia d’impresa: nuove registrazioni e fallimenti – I trimestre 2019 – II trimestre 2021.
ISTAT (2021). Rapporto sulle imprese 2021. Struttura, comportamenti e performance dal censimento permanente. ISTAT, Roma.
ISTAT (2022). Nuovi sviluppi nella misurazione della dimensione di impresa. ISTAT, Roma.
ISTAT (2022a). Rapporto Annuale 2022. ISTAT, Roma.
Lampugnani, D. (2018). Co-Economy. Un’analisi delle forme socioeconomiche emergenti. Feltrinelli, Milano.
OECD (2019). SME and Entrepreneurship Policy in Ireland, OECD Studies on SMEs and entrepreneurship, OECD Publishing, Paris.
Politecnico di Torino (2021). Social Innovation Monitor. Politecnico di Torino, Torino.
Sapelli, G. (2013). Elogio della piccola impresa. Il Mulino, Bologna.
Schumpeter, J., A. (1911). Teoria dello sviluppo economico, cap. II Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico, in “Quaderni di Storia dell’Economia Politica”, a. IV, nn. 1-2, 1986.
Unioncamere (2021). Osservatorio per l’imprenditorialità femminile.
Unioncamere (2021a). Sistema Informativo Excelsior 2021, Nuove Imprese. Caratteristiche e fabbisogni professionali delle nuove imprese. Indagine 2021.
Unioncamere (2022). InfoCamere Movimprese. Comunicato Stampa, 20 luglio 2022.